Crescono le specie a rischio e l'impronta umana sul nostro pianete si fa sentire in modo sempre più pesante.
Bisogna cambiare rotta.
E' l'appello lanciato dal WWF, dopo i risultati del rapporto biennale Living Planet Report, realizzato in collaborazione con la Zoological Society di Londra e il Global Footprint Network. “La situazione sempre più grave in cui versano i sistemi naturali del pianeta a causa della nostra costante pressione dimostra chiaramente l’insostenibilità dei modelli economici sin qui perseguiti, basati su una crescita materiale e quantitativa continua – dichiara Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia –. Nella nuova economia eco-sostenibile, il pensiero economico deve comprendere l’attenzione per gli esseri umani e per i sistemi naturali del pianeta, tra di loro indissolubilmente legati”.
Considerando le aree necessarie a fornire le risorse che utilizziamo, la superficie occupata dalle infrastrutture e quella necessaria ad assorbire i rifiuti che produciamo, comprese le emissioni di CO2, basterebbe che ogni abitante del pianeta si “accontentasse” di 1,8 ettari globali per vivere entro i limiti della capacità del pianeta senza compromettere le generazioni future.
E invece la stragrande maggioranza dei Paesi, in particolare le nazioni più ricche, superano di gran lunga questa misura arrivando a picchi di oltre dieci ettari globali pro capite. I dieci Paesi con l’impronta ecologica pro-capite più “pesante” sono Emirati Arabi Uniti, Qatar, Danimarca, Belgio, Stati Uniti, Estonia, Canada, Australia, Kuwait e Irlanda.
In sostanza, ci vorrebbero ben sei pianeti se tutti vivessimo come un abitante medio degli Emirati Arabi, quattro pianeti e mezzo per Stati Uniti, Belgio e Danimarca, quattro pianeti per Canada e Australia.
Ma anche l’Italia non brilla per “leggerezza”: a ciascun italiano servono infatti ben cinque ettari globali per soddisfare il suo stile di vita, un valore equivalente alla capacità produttiva di 2,8 pianeti, che ci porta al 29° posto della classifica, subito dopo Germania, Svizzera e Francia, ma molto prima dei più virtuosi Regno Unito, Giappone e Cina. Complessivamente, i 31 Paesi dell’OCSE, che includono le economie più ricche del mondo, sono responsabili di circa il 40% dell’impronta globale.
L’unico tra i Paesi europei a rientrare nei limiti del pianeta è la Repubblica Moldava, mentre a chiudere la classifica con impronte da 'Cenerentola' sono Bangladesh, Afghanistan e Timor-Est.
Il Living Planet Report del WWF ha misurato lo stato di salute del pianeta attraverso i trend di quasi 8mila popolazioni di oltre 2.500 specie di vertebrati, che sono alla base dei servizi naturali da cui dipendiamo. Se l’Indice delle specie registra un certo miglioramento nella zona temperata (+ 29%) rispetto al 1970, per i migliori sforzi nella conservazione e nel controllo dell’inquinamento e perché deforestazione e cambiamenti di uso del suolo qui sono avvenuti soprattutto prima del 1950, ai tropici si registra un declino del 60% e fino al 70% per le specie di acqua dolce, il tasso più alto tra tutte le specie terrestri e marine considerate.
Ma nella complessa rete delle connessioni ecologiche la perdita di biodiversità è sintomo e sinonimo del cattivo stato di salute degli ecosistemi e implica un peggioramento dei servizi eco-sistemici che sono alla base della nostra vita e del nostro benessere: la fornitura di cibo, materie prime e medicine, la regolazione del clima, la depurazione di acqua e aria, la rigenerazione del suolo, l’impollinazione delle piante, la protezione da inondazioni e malattie““Le specie sono le fondamenta degli ecosistemi – ha dichiarato Jonathan Baillie, direttore del Programma di Conservazione della Zoological Society di Londra – Ecosistemi in salute costituiscono la base di tutto quello che abbiamo.
Se li perdiamo distruggeremo il sistema che supporta la nostra vita.” Nonostante questo, l’impronta ecologica dell’uomo, ovvero la domanda di risorse naturali necessarie per le nostre attività, è in costante aumento e va ben oltre la capacità del pianeta di rigenerare le proprie risorse.
Dal 1966 l’impronta ecologica globale è raddoppiata, l’impronta di carbonio è aumentata addirittura di 11 volte, rappresentando oggi oltre la metà dell’impronta ecologica globale, l’impronta idrica è in costante aumento e considerando l’acqua “virtuale” contenuta nei prodotti commercializzati internazionalmente, ha impatti e ricadute su fiumi e falde acquifere di tutto il mondo (un abitante del Regno Unito, per esempio, consuma 150 litri di acqua al giorno, ma il consumo nel Paese di prodotti esteri porta questo valore fino a 4.645 litri di risorse idriche mondiali al giorno)..
Per la prima volta il Living Planet Report 2010 ha incrociato i trend delle specie e dell’impronta ecologica con i redditi dei singoli Paesi, mostrando come i Paesi a più alto reddito hanno un’impronta ecologica pari a circa cinque volte di quella a basso reddito, che subiscono invece la maggiore perdita di biodiversità.
Eppure una maggiore impronta ecologica e un alto livello di consumi non corrispondono necessariamente a un più alto livello di sviluppo. Il Perù, per esempio, ha un’impronta ecologica pro-capite di 1,5 ettari globali, in linea quindi con la capacità del pianeta, e un Indice di sviluppo umano di 0,86 che rientra nei parametri di aspettativa di vita, reddito e livello di educazione ,stabiliti dall’ONU. L’Indice dello Sviluppo umano può quindi essere alto anche in Paesi con un’impronta ecologica moderata.
Considerando che nel 2050 la popolazione globale supererà con ogni probabilità i nove miliardi, rientrare nei limiti del pianeta e investire nel capitale naturale è una scelta quanto mai urgente.
Come fare?
Il WWF ha elaborato un decalogo per il futuro sostenibile e la green-economy in cui ognuno ha un suo ruolo, a partire dall’elaborazione di nuovi indicatori di sviluppo all’aumento delle aree protette e della capacità produttiva del pianeta, dagli accordi internazionali per la distribuzione equa delle risorse, fino alle scelte individuali nella dieta e nei consumi di energia.
“La sfida posta dal Living Planet report è chiara – conclude Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia – Dobbiamo trovare un modo per soddisfare le esigenze di una popolazione sempre più numerosa che incrementa i propri consumi.
Dobbiamo imparare a vivere nei limiti delle risorse dell’unico pianeta che abbiamo e per fare questo chi ha uno stile di vita consumista deve limitare consumi e sprechi".
Per fare una spesa 'a prova di CO2' il WWF ha elaborato due applicazioni interattive su www.improntawwf.it e su www.wwf.it/imprese i progetti del WWF con le imprese verso un futuro sostenibile.
Fonte
Bisogna cambiare rotta.
E' l'appello lanciato dal WWF, dopo i risultati del rapporto biennale Living Planet Report, realizzato in collaborazione con la Zoological Society di Londra e il Global Footprint Network. “La situazione sempre più grave in cui versano i sistemi naturali del pianeta a causa della nostra costante pressione dimostra chiaramente l’insostenibilità dei modelli economici sin qui perseguiti, basati su una crescita materiale e quantitativa continua – dichiara Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia –. Nella nuova economia eco-sostenibile, il pensiero economico deve comprendere l’attenzione per gli esseri umani e per i sistemi naturali del pianeta, tra di loro indissolubilmente legati”.
Considerando le aree necessarie a fornire le risorse che utilizziamo, la superficie occupata dalle infrastrutture e quella necessaria ad assorbire i rifiuti che produciamo, comprese le emissioni di CO2, basterebbe che ogni abitante del pianeta si “accontentasse” di 1,8 ettari globali per vivere entro i limiti della capacità del pianeta senza compromettere le generazioni future.
E invece la stragrande maggioranza dei Paesi, in particolare le nazioni più ricche, superano di gran lunga questa misura arrivando a picchi di oltre dieci ettari globali pro capite. I dieci Paesi con l’impronta ecologica pro-capite più “pesante” sono Emirati Arabi Uniti, Qatar, Danimarca, Belgio, Stati Uniti, Estonia, Canada, Australia, Kuwait e Irlanda.
In sostanza, ci vorrebbero ben sei pianeti se tutti vivessimo come un abitante medio degli Emirati Arabi, quattro pianeti e mezzo per Stati Uniti, Belgio e Danimarca, quattro pianeti per Canada e Australia.
Ma anche l’Italia non brilla per “leggerezza”: a ciascun italiano servono infatti ben cinque ettari globali per soddisfare il suo stile di vita, un valore equivalente alla capacità produttiva di 2,8 pianeti, che ci porta al 29° posto della classifica, subito dopo Germania, Svizzera e Francia, ma molto prima dei più virtuosi Regno Unito, Giappone e Cina. Complessivamente, i 31 Paesi dell’OCSE, che includono le economie più ricche del mondo, sono responsabili di circa il 40% dell’impronta globale.
L’unico tra i Paesi europei a rientrare nei limiti del pianeta è la Repubblica Moldava, mentre a chiudere la classifica con impronte da 'Cenerentola' sono Bangladesh, Afghanistan e Timor-Est.
Il Living Planet Report del WWF ha misurato lo stato di salute del pianeta attraverso i trend di quasi 8mila popolazioni di oltre 2.500 specie di vertebrati, che sono alla base dei servizi naturali da cui dipendiamo. Se l’Indice delle specie registra un certo miglioramento nella zona temperata (+ 29%) rispetto al 1970, per i migliori sforzi nella conservazione e nel controllo dell’inquinamento e perché deforestazione e cambiamenti di uso del suolo qui sono avvenuti soprattutto prima del 1950, ai tropici si registra un declino del 60% e fino al 70% per le specie di acqua dolce, il tasso più alto tra tutte le specie terrestri e marine considerate.
Ma nella complessa rete delle connessioni ecologiche la perdita di biodiversità è sintomo e sinonimo del cattivo stato di salute degli ecosistemi e implica un peggioramento dei servizi eco-sistemici che sono alla base della nostra vita e del nostro benessere: la fornitura di cibo, materie prime e medicine, la regolazione del clima, la depurazione di acqua e aria, la rigenerazione del suolo, l’impollinazione delle piante, la protezione da inondazioni e malattie““Le specie sono le fondamenta degli ecosistemi – ha dichiarato Jonathan Baillie, direttore del Programma di Conservazione della Zoological Society di Londra – Ecosistemi in salute costituiscono la base di tutto quello che abbiamo.
Se li perdiamo distruggeremo il sistema che supporta la nostra vita.” Nonostante questo, l’impronta ecologica dell’uomo, ovvero la domanda di risorse naturali necessarie per le nostre attività, è in costante aumento e va ben oltre la capacità del pianeta di rigenerare le proprie risorse.
Dal 1966 l’impronta ecologica globale è raddoppiata, l’impronta di carbonio è aumentata addirittura di 11 volte, rappresentando oggi oltre la metà dell’impronta ecologica globale, l’impronta idrica è in costante aumento e considerando l’acqua “virtuale” contenuta nei prodotti commercializzati internazionalmente, ha impatti e ricadute su fiumi e falde acquifere di tutto il mondo (un abitante del Regno Unito, per esempio, consuma 150 litri di acqua al giorno, ma il consumo nel Paese di prodotti esteri porta questo valore fino a 4.645 litri di risorse idriche mondiali al giorno)..
Per la prima volta il Living Planet Report 2010 ha incrociato i trend delle specie e dell’impronta ecologica con i redditi dei singoli Paesi, mostrando come i Paesi a più alto reddito hanno un’impronta ecologica pari a circa cinque volte di quella a basso reddito, che subiscono invece la maggiore perdita di biodiversità.
Eppure una maggiore impronta ecologica e un alto livello di consumi non corrispondono necessariamente a un più alto livello di sviluppo. Il Perù, per esempio, ha un’impronta ecologica pro-capite di 1,5 ettari globali, in linea quindi con la capacità del pianeta, e un Indice di sviluppo umano di 0,86 che rientra nei parametri di aspettativa di vita, reddito e livello di educazione ,stabiliti dall’ONU. L’Indice dello Sviluppo umano può quindi essere alto anche in Paesi con un’impronta ecologica moderata.
Considerando che nel 2050 la popolazione globale supererà con ogni probabilità i nove miliardi, rientrare nei limiti del pianeta e investire nel capitale naturale è una scelta quanto mai urgente.
Come fare?
Il WWF ha elaborato un decalogo per il futuro sostenibile e la green-economy in cui ognuno ha un suo ruolo, a partire dall’elaborazione di nuovi indicatori di sviluppo all’aumento delle aree protette e della capacità produttiva del pianeta, dagli accordi internazionali per la distribuzione equa delle risorse, fino alle scelte individuali nella dieta e nei consumi di energia.
“La sfida posta dal Living Planet report è chiara – conclude Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia – Dobbiamo trovare un modo per soddisfare le esigenze di una popolazione sempre più numerosa che incrementa i propri consumi.
Dobbiamo imparare a vivere nei limiti delle risorse dell’unico pianeta che abbiamo e per fare questo chi ha uno stile di vita consumista deve limitare consumi e sprechi".
Per fare una spesa 'a prova di CO2' il WWF ha elaborato due applicazioni interattive su www.improntawwf.it e su www.wwf.it/imprese i progetti del WWF con le imprese verso un futuro sostenibile.
Fonte